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A. MANCINI | Ritratto, disegno a tecnica mista su carta.

Opera firmata sul fronte, inserita in bella cornice cornice napoletana del XIXsec.
La pratica accademica del disegno viene stravolta a Napoli dalla presenza di Pitloo e nel periodo successivo all’Unità d’italia Antonio Mancini è un esponente di spicco di questa libertà di gesto e come tale fu premiato nel 1871 col Primo Premio alla Scuola di Disegno. Roberto Longhi, nel 1949, riferendosi al Mancini nei suoi rapporti con Parigi e gli impressionisti, lo definisce: “artista di occhio acutissimo, ma ineducabile”
BIOGRAFIA
Antonio Mancini nacque il 14 novembre 1852 a Roma da Paolo, sarto nativo di Narni, e da Domenica Cinti, ternana (riferimento imprescindibile, la dettagliata biografia a cura di E. di Majo, in Antonio Mancini, pp. 121-128). Nello stesso anno della nascita del Mancini, la famiglia si trasferì a Narni. Qui ricevette una prima formazione presso gli scolopi della chiesa di S. Agostino. Sollecitato dai conti Cantucci che ne riconobbero la predisposizione all’arte, Paolo inviò il figlio a lavorare presso un decoratore locale e ben presto, nel 1865, probabilmente proprio per avviarlo a buoni studi artistici, decise di trasferirsi con tutta la famiglia (la moglie e i tre figli, il Mancini, Giovanni e Angelo) a Napoli. Subito impiegato come doratore presso una bottega al vicolo Paradiso, “vicino alla casa di Giacinto Gigante” (dagli Appunti autobiografici dettati da Antonio Mancini al nipote Alfredo negli anni 1925-1930, trascritti in Santoro, p. 257), il Mancini fu messo a scuola all’oratorio dei girolamini e seguì contemporaneamente la scuola serale presso la chiesa di S. Domenico Maggiore, dove incontrò e iniziò a frequentare il coetaneo Vincenzo Gemito; presso lo studio dello scultore Stanislao Lista presero l’abitudine a disegnare da calchi antichi e soprattutto dal vero, ritraendo modelli occasionali trovati in strada e raffigurandosi l’un l’altro. A questo momento sembra doversi riferire il piccolo monocromo raffigurante un Giovane scugnizzo nudo (Naples, FL, collezione Gilgore). Nel luglio del 1865 risulta iscritto all’istituto di belle arti di Napoli (suoi insegnanti nella scuola di disegno di figura furono Raffaele Postiglione e Federico Maldarelli), ottenendo già l’anno successivo il primo premio della scuola di figura. Come Gemito, il Mancini non si accontentò di cimentarsi nei temi accademici, ma volse lo sguardo alla realtà circostante, prendendo spunto dallo spettacolo della vita popolare; il mondo del circo, in particolare, gli fornì decisive suggestioni. L’approdo di Domenico Morelli alla cattedra di pittura dell’istituto nel 1868 rappresentò una tappa fondamentale nella formazione del Mancini il quale, pur estraneo alle principali tendenze creative e tematiche di Morelli, avrebbe condiviso col maestro, assorbendo criticamente l’orientamento antiaccademico dei suoi insegnamenti, la necessità di un’arte saldamente imperniata sui valori formali. Sollecitato da Morelli, il Mancini ebbe occasione di formarsi sulla grande pittura napoletana del Seicento, assimilando a fondo la lezione del naturalismo napoletano nelle chiese e nei musei della città. Con Francesco Paolo Michetti, anch’egli giunto a Napoli nel 1868 da Chieti, così come con Gaetano Esposito e Paolo Vetri, il Mancini strinse un forte e incisivo legame di vita e di lavoro durante i fondamentali anni di studio a Napoli. Se la prima opera datata del Mancini (Testa di bambina, 1867: Napoli, Museo di Capodimonte) si dimostra ancora prova di non significativo respiro, l’anno seguente egli esordì con un autentico capolavoro, Lo scugnizzo o Terzo comandamento (Antonio Mancini, p. 95 n. 1), raffigurazione di un adolescente lacero e diseredato contemplante i resti di un festino mondano, la cui opulenta gaiezza (evocata solo tramite dettagli di natura morta) risulta prossima al giovane eppure per lui intangibile, sguaiata eppure invidiabile. L’opera fu esposta poi nel 1875 alla Promotrice di Napoli, ed è da considerarsi, con Dopo il duello (Torino, Civica Galleria d’arte moderna: ibid., pp. 95 s. n. 2), incunabolo della poetica manciniana, ricca nei mezzi pittorici e fortemente evocativa nelle scelte tematiche. Prodigioso banco di prova dell’artista sedicenne, fu del resto subito ammirata da Lista e Filippo Palizzi che la videro nel primo studio del Mancini, ricavato “nel suppigno di una casa vicina” (Santoro, p. 257), in vicolo S. Gregorio Armeno. Prese avvio, con questo genere di produzione, la predilezione per la raffigurazione degli scugnizzi napoletani, la cui fanciullezza negata dalle misere condizioni di vita è descritta con intenso realismo e al contempo trasfigurata in chiave mitica. L’intima identificazione morale col mondo degli esclusi non comporta infatti un’adesione alle cadenze espressive proprie della denuncia sociale, facendosi piuttosto veicolo di sublimazione poetica e psicologica (si vedano Carminella, 1870: Roma, Galleria nazionale d’arte moderna; Il prevetariello, 1870: Napoli, Museo di Capodimonte; Il cantore, 1872: L’Aja, Museo nazionale H.W. Mesdag; Saltimbanco, 1872: New York, Metropolitan Museum of art; Bacco, 1874: Milano, Museo nazionale della scienza e della tecnica). All’inizio dell’ottavo decennio, sulla scia dei buoni successi all’istituto di belle arti – nel 1870 conseguì il primo premio per la pittura; l’anno successivo, quello del disegno di figura con Vestire gli ignudi (Napoli, Accademia di belle arti) – e grazie all’interessamento di Antonio Lepre, medico e insegnante di anatomia nel medesimo istituto, il Mancini ottenne alcuni locali nell’ex convento della chiesa di S. Andrea delle Monache che utilizzò come studio insieme con Gemito, lo scultore Michele La Spina di Acireale e il pittore Vincenzo Volpe. Vi realizzò, nel 1871, la Figura con fiori in testa che, esposta alla Promotrice di Napoli, lo fece conoscere al musicista belga Albert Cahen, il quale ne richiese una replica. Fratello minore di Édouard, influente finanziere stabilito a Roma, Albert Cahen si convertì ben presto per il Mancini in un vero e proprio patrono; è questo il primo di quei numerosi legami mecenatizi che avrebbero costituito una costante dell’intero percorso professionale dell’artista, caratterizzando il suo rapporto con la committenza – sempre condizionato da una dipendenza materiale ormai inconsueta per i tempi – in chiave fortemente antimoderna (Rosazza). Tramite Cahen il Mancini entrò in contatto con personaggi della società colta cosmopolita (fra gli altri lo scrittore Paul Bourget e la famiglia Curtis) che molto apprezzarono e sostennero la sua produzione. Fallito il tentativo di avvicinare il Mancini al mercante tedesco G. Reitlinger, sostenitore di altri pittori meridionali, Cahen fornì al Mancini contatti col mercato artistico internazionale, che gli permisero di inviare quadri ad Alphonse Portier che riuscì a garantirgli la vendita di alcune opere. Sempre tramite Cahen, il Mancini trovò accesso ai Salon parigini, dove inviò nel 1872 Dernier sommeil e Enfant allant à l’école e nel 1873 Orfanella (Amsterdam, Museo nazionale), già rifiutato, per le sue grandi dimensioni, da Giuseppe Verdi che lo aveva visto a Napoli (Santoro, p. 257). Risale al 1873 il primo importante viaggio di studio: nel maggio visitò Venezia, dove raggiunse Cahen, e successivamente Milano, alla cui Esposizione nazionale di belle arti espose due opere di piccolo formato scartate in prima istanza dalla commissione, ma poi reinserite in mostra in posti d’onore dall’ordinatore Eleuterio Pagliano. Nell’estate del 1874, con Gemito, Michetti e Eduardo Dalbono, il Mancini frequentò assiduamente la villa Arata di Portici, dove a partire dal luglio risiedette con la famiglia di Mariano Fortuny, nei mesi a immediato ridosso della morte improvvisa del Fortuny, avvenuta a Roma il 14 novembre di quell’anno (Picone Petrusa, p. 426). L’incontro, fondamentale – come per gli altri artisti napoletani – in ragione delle straordinarie suggestioni pittoriche ed estetiche innescate dalla frequentazione del maestro spagnolo, rappresentò per il Mancini la possibilità di venire finalmente conosciuto da Adolphe Goupil, il celebre mercante francese sostenitore dei più vivaci talenti pittorici e decorativi del momento. L’opera Jeune garçon tenant une pièce de monnaie del 1873-74 (Naples, FL, collezione Gilgore: A chisel and a brush, p. 70 n. 18), dono del Mancini a Fortuny, fece infatti parte della celebre vendita all’asta della collezione dell’artista spagnolo, avvenuta a Parigi nel 1875 proprio a cura di Goupil. A seguito di questa occasione di forte visibilità, il Mancini fu sollecitato a recarsi a Parigi, dove si trattenne da maggio a settembre (1875) e dove ebbe modo di conoscere e frequentare non solo gli artisti italiani attivi nella capitale francese, come G. De Nittis e Giovanni Boldini, ma anche Ernest Meissonier e Jean-Léon Gérôme. Dal mercante parigino il Mancini ottenne un contratto che gli avrebbe consentito di non risiedere a Parigi, ma di inviare opere da Napoli; benché nel catalogo del Salon del 1876, dove fu esposto Le petit écolier (Parigi, Musée d’Orsay), risulti residente presso Goupil, il Mancini in quell’anno si trovava infatti di nuovo a Napoli. Un tentativo non riuscito di aprirsi un mercato a Roma (dove soggiornò brevemente presso il Circolo degli artisti) e, soprattutto, lo scarso successo all’Esposizione nazionale napoletana del 1877 (dove espose Ama il prossimo tuo come te stesso e I figli di un operaio) lo indussero tuttavia a tentare una nuova esperienza in Francia, e nel marzo 1877 era di nuovo a Parigi, con Gemito. Secondo quanto riportato da Cecchi (pp. 85 s.) il Mancini portò con sé in Francia il più significativo fra i dipinti dedicati alla raffigurazione degli scugnizzi napoletani, il Saltimbanco (Filadelfia, Museum of art, lascito Jordan) in costume con piuma di pavone, eseguito a Napoli “all’ombra di candela diretta da Gemito” e capolavoro di straordinaria sintesi poetica dell’artista. Giunto a Parigi danneggiato, il dipinto fu ritoccato dallo stesso Mancini (1878) che allo scopo fece appositamente venire da Napoli Luigi Gianchetti, detto Luigiello, giovane scugnizzo convertitosi nel suo modello preferito. Il saltimbanco, acquistato in prima istanza da Cahen, fu poi esposto alla sezione italiana dell’Esposizione universale del 1878 e ivi acquistato dal comitato dell’Esposizione (Antonio Mancini, p. 101 n. 13). Data a questi anni il patto economico che il Mancini strinse a Parigi con Gemito, una sorta di accordo protezionistico che avrebbe dovuto impedire a entrambi di vendere proprie opere senza il consenso l’uno dell’altro in merito al prezzo di vendita. Tale patto, svantaggioso per entrambi, generò una serie di aspri contrasti sfociati, nel 1878, nella dolorosa rottura dell’amicizia con lo scultore. I dissapori con Gemito, del resto, furono prodromo di un generale guastarsi dell’esperienza parigina, funestata da debiti, malattie nonché dal faticoso inserimento negli impegnativi ambienti della mondanità locale. Con l’amarezza di un personale fallimento il Mancini tornò dunque a Napoli nel marzo del 1878. Il già precario equilibrio psichico fu nei mesi successivi definitivamente turbato e, pur seguitando a dipingere (La corallaia; Casa di pegni; Si vende), il Mancini andò soggetto a ripetute crisi nervose (Oliverio). Affidato alle cure del professor Giuseppe Buonomo nel 1881 fu internato nel manicomio provinciale di Napoli. Neppure nei mesi trascorsi in manicomio, dall’ottobre 1881 al febbraio 1882, il Mancini cessò di dipingere; appartengono a questo momento il Ritratto del dottor Buonomo, il Ritratto del dottor Cera, diversi ritratti di addetti del manicomio, nonché numerosissimi autoritratti – genere in cui non stancò mai di cimentarsi – nei quali il Mancini si scrutava con acutezza in una sorta di spietata autobiografia dei suoi stati psichici (Antonio Mancini, pp. 104 s. n. 19, 116 s. nn. 41 s.). Testimonianza del suo stato di turbamento è, inoltre, una straripante grafomania che si manifestò in lettere interminabili e sconnesse inviate ad amici e conoscenti (parzialmente consultabili solo in Santoro). Dimesso dagli istituti di cura e aiutato finanziariamente dal barone Carlo Chiarandà, il Mancini decise di lasciare Napoli per Roma, città dove si trasferì definitivamente nel 1883, sostenuto anche da un piccolo sussidio mensile offerto dall’istituto di belle arti per interessamento di Palizzi e Morelli. Risale al 1883 anche l’inizio del sodalizio col marchese Giorgio Capranica del Grillo, figlio di Giuliano e dell’attrice Adelaide Ristori (nel 1889 ne eseguì il ritratto oggi alla National Gallery di Londra), esponente di punta dell’ambiente culturale romano, il quale ne divenne mecenate e tutore. Di poco successivo fu l’incontro con Daniel Sargent Curtis, ricco mecenate americano, stabilitosi a Venezia in palazzo Barbaro, e con il figlio pittore, Ralph Wormsley Curtis, cugino di John Singer Sargent; con le opere inviate per la loro residenza veneziana, il Mancini si inserì nel giro dei collezionisti stranieri residenti in Italia, importante filone di committenza lungo tutto l’arco della sua vita. Seguì l’incontro con lo scultore Thomas Waldo Story, figlio del più noto William Wetmore Story, americano, stabilitosi definitivamente a Roma già dal 1851, il quale gli offrì l’opportunità di lavorare nel suo studio sito nel palazzo di famiglia in via San Martino della Battaglia. Rimase invece sempre una relazione a distanza quella col pittore di marine, banchiere e mecenate olandese Hendrik Willem Mesdag il quale dal 1885 iniziò a collezionare opere del Mancini, oggi in gran parte raccolte nel museo omonimo a L’Aia (come Il ragazzo nudo del 1885: Pennock e Italie 1880-1910). Nel 1887, presente a Venezia per l’Esposizione nazionale, il Mancini frequentò il salotto di palazzo Barbaro, dove i Curtis intrattenevano un cenacolo culturale. Tornato a Roma, il Mancini sperimentò in via sempre più consapevole il sistema della cosiddetta doppia graticola, consistente in una coppia di telai quadrettati a spago, posti davanti al modello e davanti alla tela per garantire l’esattezza dell’impianto prospettico. Lasciato visibile al di sotto della materia pittorica, esso dava luogo al ben noto effetto di quadrettato tipico della sua pittura fra la fine degli anni Ottanta e Novanta: effetto dapprima apprezzato ma via via guardato con sospetto dalla critica che avrebbe finito con lo stigmatizzarne un ricorso eccessivo. Per quanto l’intensità delle sue ricerche tecnico-pittoriche avesse dato nuovo slancio alla sua produzione, il Mancini continuò a rimanere in una posizione emarginata nell’ambiente artistico romano, da lui stesso in più occasioni deprecato in quanto corrotto e volgare (Santoro, p. 192); mantenne la propria vita entro le coordinate di un’esistenza precaria e sregolata e fu costretto più volte a chiedere aiuto ai suoi amici altolocati per ottenere qualche incarico (ibid., p. 204). Nonostante tali condizioni, il padre Paolo, rimasto vedovo, dal 1890 si trasferì a Roma presso il Mancini, diventando uno dei suoi più abituali modelli (Antonio Mancini, pp. 110 s., nn. 29-39). Nel 1894 ottenne dall’economista Maffeo Pantaleoni la commissione del ritratto della madre (Ritratto della signora Pantaleoni, 1894: Roma, Galleria nazionale d’arte moderna), successivamente presentato e premiato all’Esposizione universale di Parigi del 1900; mentre nel 1895 riuscì ad ampliare la cerchia dei suoi committenti incontrando Isabella Stewart Gardner (Licht, p. 11), presente a Roma in primavera col marito, la quale – già in possesso del Ciociaretto portastendardo precedentemente appartenuto ai Curtis – gli commissionò il ritratto del marito, da eseguirsi a Venezia, dove la famiglia sarebbe stata ospite in palazzo Barbaro. Il Mancini li raggiunse in effetti nel maggio, in tempo per visitare la prima Biennale internazionale d’arte (dove espose Ragazzo romano e Ofelia), rassegna cui avrebbe partecipato con regolarità fino al 1914. L’incontro con Edoardo Almagià, avvenuto nel 1898, generò nuove significative commissioni non solo da parte di questo (Ritratto della famiglia Almagià, 1903), ma anche da parte di importanti famiglie a lui imparentate o legate, come gli Ambron, i Bondi, i Volterra, i Sonnino. Nel 1901, sull’onda del grande successo ottenuto a Parigi con il Ritratto della signora Pantaleoni, Claude Pensonby, amico dei Curtis e di Sargent, invitò il Mancini a recarsi a Londra, dove l’artista giunse nel mese di giugno dello stesso anno e dove sarebbe ritornato nel 1907. Giunto a Londra, nel 1901 il Mancini eseguì il Ritratto di Claude Pensonby e il Ritratto di Haroldino Pensonby. E incontrò Mary Hunter, sorella della compositrice Ethel Smith e buona amica di Sargent. La quale raffinata protagonista degli ambienti culturali europei, si convertì in attenta protettrice del Mancini. Datano all’autunno del 1901 il suo ritratto, quello del marito Charles e quello della figlia Sylvia, tutti dipinti nella dimora di famiglia a Selaby, nel Darlington. A Londra, il Mancini frequentò anche il salotto artistico-letterario della famiglia Caccamisi; lì ebbe occasione di incontrare Jacques-Émile Blanche, Auguste Rodin, John Lavery nonché John S. Sargent, la contiguità col quale è dimostrata anche dal ritratto del Mancini eseguito dall’artista statunitense nel 1902 (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna). Deludente, nonostante i buoni contatti, fu l’approdo del Mancini alla attesa mostra annuale della Royal Academy, dove fu accettato soltanto uno (il Ritratto di Mary Hunter) dei quattro dipinti presentati; deluso anche per il mancato appoggio di Sargent, il Mancini tornò in Italia, sostando a Ghiffa, sul lago Maggiore, in vista del ritratto da realizzare ai coniugi Torelli, agiati collezionisti di arte contemporanea e particolarmente di opere della scapigliatura lombarda. Cominciarono ad arrivare, nel frattempo, segnali di un successo internazionale e, dopo la mostra monografica organizzata nel 1897 da Mesdag presso l’Associazione Pulchri Studio dell’Aia (ripetuta nel 1902), la presentazione di diciassette sue opere alla mostra di Dordrecht nel 1899, il successo ottenuto a Monaco col Ritratto presentato all’Esposizione internazionale, il Mancini partecipò nel 1904 anche all’Esposizione internazionale di Düsseldorf con Ragazzo con conchiglie (Naples, FL, collezione Gilgore) e I regali del nonno; mentre il Ritratto di Giorgio Capranica del Grillo e il Ritratto della signora Pantaleoni verranno premiati rispettivamente all’Esposizione universale di Saint Louis (1904) e a quella internazionale di Monaco di Baviera (1905). A Roma, frattanto, il Mancini entrò in contatto con nuovi committenti come Hugh Lane, direttore della Municipal Gallery di Dublino. Amico degli Hunter, di passaggio nel 1905 a Roma, Lane visitò lo studio dell’artista avviando trattative per l’acquisto di sue opere (Ritratto di Giorgio Capranica del Grillo), nonché per la commissione del proprio ritratto, eseguito nel 1906, che valse al Mancini un nuovo invito a raggiungere l’Inghilterra. Nuovamente a Londra nel settembre 1907, ancora in stretto contatto con la famiglia Hunter (Ritratto di Phyllis Williamson, figlia di Mary Hunter; Ritratto di Elizabeth e Charles Williamson; Ritratto di Elizabeth Williamson), il Mancini fu poi a York, ospite della famiglia Lawson (Ritratto dell’ambasciatore Thomas Lawson, marito di Sylvia Hunter), e, infine, a Dublino, ospite di Hugh Lane, attraverso il quale entrò in contatto con la società letteraria e artistica locale. Tornato a Londra, realizzò una serie di ritratti per la famiglia aristocratica Dixwell Oxenden (Ritratto di sir Basil Heneage Dixwell Oxenden, 1908: Roma, collezione privata) e i tre dipinti componenti la serie Al mio signore. Tornato a Roma nell’estate del 1908, il Mancini si legò con contratto al mercante tedesco Otto Messinger (Ritratto di Otto Messinger, 1909: Roma, Galleria nazionale d’arte moderna) già collezionista di pittori meridionali, il quale dapprima lo ospitò in palazzo Massimo alle Colonne per poi allestirgli uno studio personale nelle case Corrodi di via Maria Adelaide, nei pressi di piazza del Popolo. Qui, adattandosi alle richieste del committente, dipinse quasi esclusivamente figure in costumi settecenteschi, o comunque esotici, cavalieri, alabardieri, suonatori, sempre contando sulle sostanze di Messinger per la fornitura dei sontuosi costumi, degli arredi, dei modelli. Ancora al seguito del suo ricco committente, intraprese nel corso del 1910 un importante viaggio in Germania, soggiornando a Monaco di Baviera, dove incontrò Franz von Stuck, e visitando Norimberga, Colonia, Berlino. All’inizio del 1911, dopo l’esposizione della collezione di Messinger a Monaco, il Mancini, passando dai Paesi Bassi pur senza incontrare Mesdag, tornò a Roma. Nel 1911 partecipò all’Esposizione internazionale, con otto delle opere dipinte per Messinger che gli valsero uno dei cinque premi ex aequo per il miglior artista. La critica dedicò particolare attenzione alla tecnica del Mancini, di sempre maggiore audacia cromatica e materica (Ozzola). Fra i primi a congratularsi del successo ottenuto alla mostra di Roma fu Fernand du Chêne de Vère, ricco industriale francese trapiantato a Milano, che sostituì Messinger, con cui il rapporto si era interrotto, proponendo al Mancini un contratto in esclusiva rinnovato annualmente dal 1912, subito dopo la morte del padre Paolo, fino al 1918. Durante questo periodo il Mancini visse nella dimora approntatagli dal suo mecenate a villa Jacobini a Frascati, dove ebbe a disposizione ampi locali e un ricchissimo armamentario di tele, colori, stoffe, costumi originali, arredi d’ogni tipo per le sue ambientazioni eccentriche ed esotiche. Solo al termine del conflitto mondiale, appreso che il fratello Giovanni e il nipote Alfredo, reduci dal fronte, si trovavano a Roma, decise di lasciare la villa per trasferirsi presso il fratello Giovanni e la sua famiglia, dapprima in un appartamento di viale Liegi e poi, dal 1926, nel villino in via delle Terme Deciane, ultima sua residenza. Nel 1920 la XXII Biennale di Venezia consacrò definitivamente il suo trionfo, dedicandogli una mostra personale, tutta composta di opere recenti (Testa di donna in azzurro, Autoritratto, Enrica, Ciociara, Riflessi, Satanico, Profilo, Bambina, Testa di donna, Ritratto del tenente Bonanni, Paggio, In giardino, Mia nipote, Il ricamo, Bandiera, Ritratto, Sorriso, Gentiluomo del XVII secolo, Primavera, Inverno, Conchiglie), acquistate in blocco e ad alto prezzo da una cordata di mercanti d’arte. La riguadagnata sicurezza economica gli permise di riacquistare il dipinto giovanile Lo scugnizzo (Terzo comandamento), rientrato dalla Francia dove aveva fatto parte della collezione parigina di Michele Manzi e riproposto all’asta organizzata da Augusto Jandolo nel febbraio del 1921. Gli ultimi anni della vita del Mancini furono costellati di importanti tributi nelle principali rassegne italiane. Nel 1927 i suoi settantacinque anni furono celebrati ufficialmente con una mostra retrospettiva all’Augusteo di Roma promossa dalla rivista La Fiamma; a Milano, nello stesso anno, ebbe luogo presso la galleria Pesaro la vendita di oltre quaranta opere, presentate in catalogo da Vittorio Pica, appartenenti alla collezione Chêne de Vère. Mancini, Autoritratto [1929].pngA questa seguì la mostra organizzata nel 1923 al Castello Sforzesco, dedicata al periodo di Frascati. A Londra, la galleria Knoedler in Bond street organizzò alla fine del 1928 una esposizione di ventisette dipinti e tredici pastelli del periodo inglese, nel cui catalogo era premessa la frase di Sargent: “I have met in Italy the greatest living painter”. Nominato accademico di merito di S. Luca nel 1913, cittadino onorario di Napoli nel 1923 con solenne cerimonia a palazzo S. Giacomo (in quell’occasione incontrò di nuovo e per l’ultima volta Gemito), il 29 ottobre 1929 fu fra i primi a essere accolto nella neo istituita Reale Accademia d’Italia. Eseguì nello stesso anno l’Autoritratto (collezione privata) sul quale annotò, in una sorta di sconnesso palinsesto biografico, le principali scansioni del suo percorso professionale ed esistenziale (Antonio Mancini, p. 128). Fra le ultime opere dipinte prima di morire, l’Autoritratto con turbante rosso (collezione privata). Il Mancini morì a Roma il 28 dicembre 1930. Una personale di tre sale organizzata da Cipriano Efisio Oppo (circa cinquanta opere) lo omaggiò solennemente alla I Quadrienale romana nel 1931. Nel 1935 la salma del Mancini fu traslata dal Verano alla chiesa di S. Alessio all’Aventino.

Fonti e Bibliografia:

L. Ozzola, Artisti contemporanei: Antonio Mancini, in Emporium, XXXIII (1911), pp. 415-429.
D. Cecchi, Antonio Mancini, Torino 1966.
E. Santoro, La poetica di Antonio Mancini attraverso gli appunti e le lettere, tesi di laurea, Università degli studi di Bologna, facoltà di lettere e filosofia, a.a. 1976-77.
H. Pennock, Antonio Mancini en Nederland, Haarlem 1987.
Antonio Mancini, 1852-1930 (catalogo, Spoleto), a cura di B. Mantura – E. di Majo, Roma 1991.
A. Oliverio, Il pittore pazzo, ibid., pp. 37-41.
P. Rosazza, Fortuna di Antonio Mancini nelle raccolte pubbliche e private, ibid., pp. 29-35.
M. Picone Petrusa, Dal 1848 alla fine del secolo, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti a Napoli dai Borbone ai Savoia (catalogo), I, Napoli 1998, pp. 425-433.
A chisel and a brush. Vincenzo Gemito e Antonio Mancini. Italian art 1850-1925 from the Gilgore Collection (catalogo, Naples, FL), a cura di F. Licht, s.l. 2000, p. 70 n. 18.
F. Licht, Mancini and Gemito in the Gilgore Collection, ibid., pp. 11-28.
Italie 1880-1910. Arte alla prova della modernità (catalogo, Roma-Parigi), a cura di G. Piantoni – A. Pingeot, Torino-Londra 2000, pp. 105 s. n. 6.
(fonte: Matteo Lafranconi in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 68, 2007)

Dimensioni 29 × 41 cm
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